... ti arriva la telefonata di un sergente di polizia: chiede se ha il permesso di parlare con tuo figlio, quinta elementare. Rispondi istantaneo: certo, chiedigli quello che vuoi, ci mancherebbe. E poi il cervello si sveglia e ti sorge spontanea una serie di dubbi. Cos’ha fatto il pupo? Cosa succede? Ma di cosa stiamo parlando?
Il sergente serafico ti informa che tuo figlio ha visto la scritta “bomb” in bagno, quindi la scuola è in lock-down (tutti blindati in palestra, nessuno entra o esce), ed ora iniziano a setacciare l’edificio, ed ogni singolo zaino, per escludere il rischio. Non puoi credere che in una scuola elementare qualcuno possa piantare una bomba, ed il poliziotto concorda, ma aggiunge: “anche se siamo sicuri al 99%, dobbiamo trattarlo come un rischio vero”. Mi metto l’anima in pace, è sicuramente uno scherzo, ma sbaglio a parlarne con mia moglie che invece si impanica a palla e mi spedisce a controllare di persona.
Arrivo e trovo tutta la scuola recintata con quel nastro giallo che vedi nei telefilm “Police – do not cross” (divieto di ingresso), quattro mezzi dei vigili del fuoco e dieci pattuglie di polizia, con parecchi agenti armati che forse pensano di essere in guerra. Si avvicina l’ora di uscita da scuola ed arrivano genitori e nonni a ritirare i pupi, e vedendo questa scena vanno giustamente in panico. Gli insegnanti son tappati dentro coi pupi, preside e vicepreside son fuori e spaventati come cerbiatti, nessuno che sembra sapere cosa fare.
Dico all’ufficiale al comando che, tempo dieci minuti, qualche nonno lo perdiamo d’infarto, tanta è la paura nei loro occhi: questi son bimbi delle elementari, fateli uscire lasciando dentro gli zaini e completate la ricognizione con calma, da soli. Per fortuna il comandante è dotato di buon senso e fa uscir tutti, con grande sollievo generale.
Secondo episodio: sei al check-in dell’aeroporto di Chicago, scalzo e coi bagagli sul nastro per dimostrare, all’inutile guardia di blu vestita, di non essere un terrorista. Ti chiama la figlia universitaria, in lacrime e singhiozzante, per dirti che è sotto il tavolo nella sua camera del dormitorio perché c’è un “active shooter” (uno che spara). Ancora una volta rispondi d’istinto: tranquilla, stai facendo la cosa giusta, non far rumore, vedi la polizia dalla finestra? Ancora una volta il cervello comincia a girare in ritardo: sono a due ore di volo da lei, cosa faccio? A chi posso chiedere un aiuto, adesso? Un brutto sentimento di assoluta impotenza, se non recitare un Pater-Ave-Gloria.
Anche questo caso s’è poi rivelato un falso allarme: lo scoppio di una tubatura in un cantiere vicino aveva fatto credere a qualche imbecille di aver sentito uno sparo, e la polizia arrivata di gran carriera si comporta come nella peggiore delle ipotesi. Il problema è che in entrambe i casi, per questo papà che vi scrive, per i figli, per tutte le altre persone coinvolte, la reazione e presenza della polizia in assetto da guerra spaventano. Razionalmente sai che molto probabilmente non è nulla, ma quando vedi il dispiego di forze, la gente veramente spaventata, e magari una figlia nel panico, sicuramente quel giorno non ti serve una dieta ricca di fibre.
Ecco, quindi, cosa si prova quando sparano a scuola, una gran brutta cosa che capita troppo spesso. Il dibattito pubblico è assurdo: con più armi da fuoco che americani, e proiettili legalmente denunciati che son venti volte tanto, ad ogni strage in una scuola noi rispondiamo con “thoughts and prayers” (pensieri e preghiere) e nulla più. Assurdo.