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Quiet quitting, Gen Z capisce come gira il fumo

L’anno scorso s’è parlato di great resignation (gran dimissioni) quando milioni di persone stressate dal virus, lockdown, impiego da remoto, e confortati da un’economia in buona salute, han pensato di lasciare il posto di lavoro senza nemmeno cercarsene un altro. 

Fenomeno che ha interessato specialmente gli adulti, che qualche soldino da parte erano riusciti a metterlo, ed ora contano su qualche mese o anno di dolce far nulla prima di rientrare nel tran-tran lavorativo. I giovani hanno reagito in modo diverso a questi fattori, specie le due ultime annate che hanno appena iniziato a lavorare e sono Gen Z.

Gli ultimi due anni sono stati una zuppa molto pesante di vincoli, vuoi maldestramente escogitati con la scusa della protezione dal virus, vuoi con l’intenzione di controllare ogni passo, ogni azione fatta dallo studente o dal lavoratore. Incontrarsi a scuola o in fabbrica, mascherati e rispettando il distanziamento, ha danneggiato quei necessari rapporti sociali che certamente non abbiamo migliorato con lo smart working. Sono saltati i convegni e le occasioni più ludiche di incontrarsi e socializzare, arrivando al punto che i miei studenti ed ora parecchi colleghi non accendono la telecamera per evitare di esser visti dagli altri, si rintanano come marmotte. Diventano homo marmot.

Non credo che molti Gen Z abbiano letto David Graeber (L’utopia delle regole) o Mattias Desmet (La psicologia del totalitarismo), ma hanno comunque intuito che lavorare oltre le otto ore al giorno, perdere il sonno e magari la salute per l’emergenza di turno, non riuscire a bilanciare il lato professionale con quello sociale e famigliare, è un comportamento sbagliato. Se anche si viene inondati di stelline, come i lavoratori della gig economy, o di feedback olimpici ed esposizione al pubblico per altri, alla fine il sacrificio di tutti oggi perché qualcuno abbia un bel futuro domani non vale la candela. Ecco spiegato il quiet quitting (rinuncia silenziosa), ovvero limitarsi al lavoro necessario per tirare innanzi, ed uscire a divertirsi e socializzare appena possibile.

Quando ho iniziato a lavorare io, il turno finiva per tutti alle cinque ed almeno due o tre sere la settimana si andava al pub, momento di socializzazione da cui poi si formavano gruppetti che facevano sport, altri organizzavano gite, altri gare di go-kart. Tutti noi neoassunti in Pirelli ci siamo integrati velocemente, e durante il giorno le iniziative di formazione ci mettevano alla prova con gli stessi colleghi che incontravamo al pub. Col passare dei mesi si conoscevano rappresentanti di altri impianti, di altri paesi, ed ancora oggi a 30 anni dall’aver lasciato ho amici che sento, ed ottimi ricordi. Chiaro che con lockdown, distanziamento, mascherine e lavoro da remoto, questo sistema è improponibile: speriamo che alle prossime ondate di virus non si reagisca allo stesso modo.

Personalmente sono contento di questo quiet quitting, perché espone una serie di inganni della sharing-economy, gig-economy, ed altre fregature dal rigoroso acronimo di tre lettere casuali e parola inglese messa come la cipria. Basta con queste stelline, finiamola con questa burocrazia disegnata per controllare ed incasellare il giovane, e rimettiamoci ad uscire con loro, a stare assieme e divertirci. È sentendosi parte di un gruppo che si capisce come e perché van fatte le cose, tanto in azienda quando in accademia; ed è divertendosi assieme che si diventa squadra.


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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro