Speciale Buscaroli / 4


La sconfitta del dottor Schweitzer

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Negli ultimi tempi della sua vita, il dottor Schweitzer stava passando di moda: la sua fama resisteva in un pubblico che s’era formata, di lui, un’immagine oleografica fra lo stucchevole della «persona che non dimenticherò mai» e la vedette dei settimanali illustrati. Un’indagine di opinione pubblica segnalò, l’anno scorso in Germania, il dottor Schweitzer come una delle due persone più popolari, alla pari con la signora Soraya Esfandiari. Presso gl’intellettuali alla moda e le classi dirigenti e politicanti, la sua fama...

... si era appannata; e chi lo trovava non più in passo coi tempi, chi criticava gl’impianti igienici del suo ospedale, e chi irrideva al suo atteggiamento nei confronti della tecnica. I volontari americani del Peace Corp lo lasciavano, delusi dal suo scetticismo sulla capacità delle nuove leve africane a governarsi da sole. Un notabile negro di Lambaréné, cravatta sgargiante sulla camicia bianca, fu udito affermare davanti a giornalisti bianchi: «Preferirei morire senza cure, piuttosto che farmi umiliare all’ospedale del dottor Schweitzer». In ogni caso, per evitare la prima di queste possibilità, il governo del Gabon aveva fatto costruire, nella stessa Lambaréné, dall’altra parte del fiume, un moderno ospedale con cui, implicitamente, la moderna Africa evoluta e cosciente, lanciava la sua sfida all’arcaico « dottore bianco », cui un giornale locale rivolse l’esortazione a «tornarsene a casa».

Anche il casco coloniale ch’egli si ostinava a portare in testa, e che imponeva ai collaboratori, fu preso a bersaglio di critiche malevole. Il Gabon era ormai la République Gabonaise, uno Stato sovrano con quattrocentocinquantamila abitanti sparpagliati su un territorio più vasto della Germania di Bonn, con Parlamento e diritto di voto esteso a tutti, maggioranza bantù e minoranza pigmea: i diplomatici occidentali avevano sepolto definitivamente il vecchio copricapo dell’èra coloniale, sostituendolo coi feltri e i cilindri dell’abbigliamento europeo, inadatti al clima meteorologico dei tropici, ma necessari per il clima politico: solo il dottore imperterrito, seguitava a portarsi il suo casco in testa, come se rifiutasse di adattarsi all’emancipazione dei popoli.
Non tardarono a precisarsi le accuse; le più benevole parlarono di «paternalismo», e le più esplicite affermarono che il vecchio era un «nostalgico del colonialismo». Né il dottor Schweitzer si era mai curato di nascondere il suo pensiero in materia.

Nel 1951, licenziando alla stampa una nuova edizione del suo libro Zwischen Wasser und Urwald, scrisse un pacato quanto perentorio monito contro la nuova mania di concedere ai popoli africani una indiscriminata indipendenza che avrebbe fatto sorgere sul nulla ridicole caricature di Stati europei: «All’epoca descritta in questo libro, avevamo il diritto di sentirci, di fronte all’indigeno, nella posizione del fratello maggiore, che vuole il bene del minore e che con la sua maggiore istruzione e intelligenza è in grado di giudicare ciò che più favorisce il suo sviluppo e il suo vero progresso… potevamo con fierezza constatare che i più intelligenti fra gl’indigeni vedevano il loro bene nel giusto modo per ottenerlo… malgrado tutte le insufficienze nei risultati, malgrado ogni negligenza, malgrado molti errori, avevamo coscienza di essere sulla via giusta. Oggi, dobbiamo rassegnarci a non sentirci più i fratelli maggiori e a non agire più come tali. È ormai opinione prevalente che si possa arrivare a una vera età di progresso solo a condizione che il fratello minore sia considerato maggiorenne e capace di discernere, allo stesso titolo del fratello grande, e che gl'indigeni possano prendere sempre più nelle loro mani il destino del paese. Così ha deciso lo spirito dell’epoca. In ogni dominio e su tutta la terra, esso vuole sopprimere ciò che resta di un sistema patriarcale per sostituirlo con un altro, difficile da definire e ancor più difficile da realizzare. La storia dirà un giorno il suo giudizio sui risultati di questo abbandono del sistema patriarcale nei territori che si chiamarono colonie e che oggi non debbono più portare questo nome. Gli avvenimenti che costituiscono il corso dell’evoluzione storica sono per i loro contemporanei insondabili nelle origini e incalcolabili negli effetti. Così, questa relazione del mio primo soggiorno a Lambaréné ha il significato di un modesto monumento dedicato all’epoca in cui le colonie erano ancora colonie».

Sarebbe bastato molto meno per attirarsi le antipatie delle nuove classi dirigenti nere, degl’intellettuali bianchi «impegnati», e perfino del Comitato dei Premi Nobel, le cui preferenze sono trasmigrate da figure come Schweitzer ai nuovi apostoli come il sudafricano Luthuli o l’americano Martin Luther King. C’è da giurare che il Ministro degli Esteri Amintore Fanfani, che si compiacque di paragonare il movimento dell’indipendenza italiana a quello del Congo, o il Presidente Saragat che nel suo telegramma di condoglianze additò l’opera dello Schweitzer «quale esempio nella via da seguire per l’elevazione di tutti i popoli», avrebbero alquanto moderato le espressioni del cordoglio se avessero conosciuto il vero pensiero del «vecchio uomo bianco». Che, per parte sua, non fece mai confusione di sorta, non accostò mai cultura a cultura, secondo la moda cara agl’intellettuali e le formule invalse nei convegni patrocinati dai varii La Pira; non auspicò mai «integrazioni», né «osmosi»; non volle, insomma, secondo la frase che, con un certo rammarico, fu usata in una rievocazione televisiva, «mescolare Bach col tamtam».

Qualcuno altro sostenne, alla radio, che lo Schweitzer aveva scelto di dedicare la sua vita alle sofferenze dei negri per un «atto di protesta contro il colonialismo»: nulla di più falso. Albert Schweitzer non risparmiò giudizi sferzanti contro il colonialismo rapace e sfruttatore; ma sostenne sempre che i suoi eccessi potevano essere combattuti, e la vita delle popolazioni elevata, soltanto nell’ambito della colonizzazione e del dominio dei bianchi, la cui fine non auspicò mai, come non l’approvò quando avvenne. Il cosiddetto «progresso degli africani verso l’autogoverno» gli parve, a lui che li conosceva per più che cinquantennale consuetudine, non già auspicio di redenzione, ma premessa di rimbarbarimento. «Qualsiasi cosa voi facciate, non riuscirete mai a cambiare le loro teste», disse ai giovani entusiasti ed ignoranti del Peace Corp che gli annunciavano il proposito d’impiantare nel paese scuole secondarie di modello occidentale.

Tutto lo sviluppo del continente africano nel dopoguerra verso l’indipendenza gli parve, né più né meno, un’ondata di pazzia. Più volte dovette riflettere sull’amaro paradosso per cui proprio dalla nazione che più generosamente gli mandava aiuti ed incoraggiamenti per la sua opera missionaria, veniva quell’indiscriminato appoggio ai movimenti anticoloniali di indipendenza che, costringendo le nazioni bianche ad andarsene, l’avrebbero resa inutile. Nel più profondo atteggiamento di Schweitzer verso i negri, la carità cristiana e il senso dell’umano dovere di soccorrere i disgraziati si congiungevano con una virile tempra di educatore; il medico che per decenni si chinò sulle più orrende piaghe delle malattie tropicali, era anche capace di inseguire, piccone brandito, uno dei suoi operai negri svogliati. Non voleva che il dono suo e dei suoi collaboratori fosse accettato, con neghittosa aspettazione, come un tributo dovuto. Voleva che nel suo esempio si ravvivasse una lezione umana capace di metter radici e di fruttificare in un insegnamento di responsabilità e dignità.

«So bene», diceva, «che con una barca a motore si trasporterebbero gli alberi sul fiume meglio che con le pagaie dei miei negri; che le escavatrici spianerebbero il terreno per i nuovi padiglioni dell’ospedale meglio delle braccia umane. So anche che i negri di qui mi criticano per questo. Ma io voglio che essi imparino a lavorare e capiscano come il progresso non debba essere considerato un diritto e tanto meno un regalo, ma debba essere conquistato, soprattutto cambiando mentalità, abbandonando l’abitudine di pensare che tutto sia dovuto. Noi li curiamo, li strappiamo alla lebbra, alle malattie e alla fame, perché da soli non potrebbero sfuggirle; ma braccia ne hanno e lavorare possono, dunque debbono».

Occorre altro per dimostrare che l’insegnamento di Schweitzer era esattamente all’opposto di come si venne sviluppando l’aiuto dei bianchi alle nuove nazioni africane? Nulla dovette affliggerlo più dello spettacolo fornito dalle nazioni bianche che, rinunciando a governare i negri, si sottrassero al loro compito proprio nel momento in cui questo (finita la prima fase dello sfruttamento) avrebbe cominciato a dare solidi frutti. Nulla dovette irritarlo più dello spettacolo fornito dalla gara di doni e blandizie ingaggiata fra gli Stati bianchi dei due opposti blocchi, del pantagruelico piano di sperperi e regali che finì per tradursi, fra le irresponsabili classi dirigenti africane, in una corsa ai lussi smodati, ai furti, agli arricchimenti.

Il contrasto fra l’operosa parsimonia della sua vita, fra il suo paziente accumulare stentato denaro in gravosi giri di concerti, nell’impegno di amici generosi, nel risparmio delle pur cospicue somme guadagnate coi diritti d’autore delle sue opere (la sola monografia su Bach ebbe, complessivamente, non meno di settanta edizioni) dovette apparirgli come una emblematica contrapposizione di saggezza e di follia, di civiltà e dissipazione, di educazione e di corruzione.

E, d’altra parte, vista con gli occhi ingordi di questi nuovi capi di Stati e di regioni, che cos’erano le povere somme risparmiate dal vecchio dottore in confronto ai ricchi festini che si venivano ora imbandendo sul timore e sulla debolezza di interi governi? L’ingratitudine si tingeva di sarcastico disprezzo, e il nuovo ospedale, pagato da qualche governo bianco, o addirittura da cinque o sei governi in concorrenza fra loro, diveniva un simbolo della dovizia allegra dei tempi nuovi in contrasto con l’eroica lesina dei vecchi, che il dottore col casco incarnava.

Ma Schweitzer non era tipo da prendersela per l’ingratitudine altrui. C’è da giurare che gratitudine e riconoscenza non erano mai entrate nei preventivi della sua economia morale; e, forse, neppure il premio dell’aldilà. Imperativo morale e carità cristiana si intrecciano senza che se ne scorgano i precisi confini. «Ero professore dell’Università di Strasburgo, organista e scrittore »: così comincia un suo libro; «ho lasciato ogni cosa per fare il medico nell’Africa equatoriale. Perché? Vari scritti e testimonianze orali di missionari mi avevano rivelato la miseria fisica degl’indigeni nella foresta vergine. Quanto più vi riflettevo, tanto più provavo pena comprendendo quanto poco noi europei ci preoccupassimo del grande compito umanitario che ci incombe in quei lontani paesi. Mi pareva che la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro fosse tagliata su misura per noi».

Ma nulla era lontano dalle sue intenzioni quanto l’invertire le parti, o parificarle, ponendo quella “ricchezza” di conoscenza e di facoltà in mani che l’avrebbero irresponsabilmente dissipata. Più avanti, ammoniva: «Un debito grava su di noi e sulla nostra civiltà. Non siamo liberi di scegliere se vogliamo o no fare del bene agli uomini di colore; dobbiamo farlo; non è solo atto di carità, ma di riparazione. Per ogni uomo che ha fatto soffrire, ne occorre uno che parta, e che porti aiuto… Le nazioni che possiedono colonie debbono sapere che si sono accollate una grave responsabilità… Gli Stati hanno certo l’obbligo di contribuire all’opera che si deve compiere… Ma uno Stato è incapace di adempiere da solo a questi doveri, che sono compito precipuo delle società e delle persone». Perciò occorreva il volontariato attivo e privato dei singoli.

Ecco dunque: il sentimento che indusse il dottore bianco, oltre alla personale scelta attivistica, oltre al religioso impegno di carità, fu inteso anche e soprattutto come dovere che ad una civiltà superiore è dettato proprio dalla sua superiorità. Il compito consisteva nell’integrare, nel migliorare, nel compensare al male eventualmente fatto, aprendo una nuova fase del colonialismo; che, bisogna dirlo, prima della seconda guerra mondiale si era già messa in movimento. Ma era un compito da condurre avanti nell’ambito di quella civiltà superiore, dei suoi ordinamenti, delle sue leggi, delle sue capacità tecniche e conoscenze scientifiche, nel riconoscimento che soltanto i suoi organismi maturi, la sua generosità e la sua capacità avrebbero potuto garantirne il successo. Questo fu il «colonialismo» di Albert Schweitzer: nutrito e sostenuto di tutto il corredo di una cultura e compiuta come quella tedesca sulla fine del secolo diciannovesimo. Se la medicina fu soltanto il corredo tecnico per poter intraprendere la sua missione, l’arma del missionario, la fusione del pensiero teologico, filosofico, letterario e musicale fu in lui un tutto completo e inscindibile della sua febbre di attività, dal suo bisogno di azione.

Per rendercene conto, dobbiamo invocare una temperie culturale per moltissimi versi diversissima dalla nostra. Quella in cui, per fare un esempio, Goethe scopriva in se stesso la filosofia di Kant senza ancora averla conosciuta, e le idee fluivano dall’uno all’altro ancora inconsapevolmente; quella in cui il pensiero fu giudicato inane e inerte se non si fosse tradotto nell’azione. Quella per cui la musica rivestiva una importanza, nella vita del pensiero, sconosciuta altrove.

Nel comune giudizio dei nostri ceti colti, nella nostra formazione filosofica e letteraria, l’idea della musica non si disgiunge, forse per effetto della diseducazione operata dal melodramma ottocentesco, da un’impressione di voluttuoso e frivolo edonismo, di pratica sdolcinata, di effusione sentimentale. Ma nella cultura tedesca, di cui lo Schweitzer va considerato l’ultimo prodotto completo, l’educazione musicale non è solamente essenziale per una persona colta, ma fondamento morale necessario; da Goethe a Thomas Mann, lo scrittore tedesco è musicalmente colto, o addirittura musicista. La musica è disciplina severa, insegnata nelle università, parente stretta della filosofia, della teologia e delle scienze esatte. La matematica esponenziale di Leibniz e il contrappunto bachiano hanno un fondamento mentale comune, così come la vena melodica di Bach si affonda nel profondo terreno della Riforma di Lutero. La musica si pone nei maggiori momenti della cultura tedesca, come la superiore mediatrice fra i diversi dominii dello spirito.

«Avevo dieci anni», cominciò Schweitzer l’introduzione al suo Bach nella grande edizione lipsiense del 1908, «quando conobbi i preludi ai corali di Bach». Occorre avvertire il lettore italiano che quando si dice «preludi ai corali», o, abbreviando, «i corali», di Bach, non si tratta di canti da cantarsi in coro, ma di elaborate composizioni per solo organo, costruite però sui temi dei corali protestanti usati nel culto. Ogni fedele ne conosce numerose decine, e in ogni chiesa si può vedere ancora oggi, appeso ai pilastri, un cartello con alcuni numeri, coi quali, semplicemente, il parroco avverte i fedeli su quali saranno i corali da cantarsi nella prossima festività. Ogni preludio ai corali di Sebastiano Bach, ha dunque un titolo ed una melodia che susciteranno immediati echi nell’anima degli ascoltatori. Ecco come musica dotta e religiosità hanno, nel vecchio mondo tedesco, radici comuni e profonde. Nella loro connessione, stabilita fin dalla prima infanzia, è l’origine prima del pensiero di Albert Schweitzer. Da un punto di vista di stretta musicologia, si è anche osservato che la persuasione di una quasi esclusiva sorgente lirica ed espressiva della musica bachiana, dallo Schweitzer scorta nell’intento di rendere musicalmente il senso religioso delle parole, lo portò ad attribuire parte predominante al Bach religioso dei preludi e delle cantate, a scapito del Bach profano e strumentale, certamente non meno importante.

In ogni caso, il libro dello Schweitzer resta come un monumento nella critica e nell’ermeneutica bachiana, in significativa posizione centrale fra gli altri due, lo Spitta e il Pirro, che completano la triade dei principali studi sul Kantor della Thomaskirche. Lo si legge ormai come il documento di un gusto e di un momento storico, ma come documento fondamentale; per consentire o per dissentire, è ancora allo Schweitzer che ci si riferisce. Albert Schweitzer (la sua figura non sarebbe completa se non si insistesse su ciò) fu, dunque, musicista nel senso completo del termine; assai più complesso di quanto il comune giudizio non riesca ad immaginare. Non fu un missionario che sapeva suonare l’organo; fu un concertista raffinato, un musicologo e filologo della musica, revisore e trascrittore di testi e, infine, organologo di grande valore. Il movimento di reazione contro la moda romantica di costruzione degli organi, che soltanto oggi si sta vittoriosamente affermando, ebbe in lui uno dei primi assertori con un’opera, quella Deutsche und französische Orgelbaukunst und Orgelkunst, del 1908, che ancora fa testo. In lui e nel suo spirito, più che la settoriale «specializzazione» dell’intellettuale moderno, vivevano la fondamentale unità dello spirito medioevale, la curiosità della faustiana Rinascenza, la scettica ed attivistica fede nell’opera dell’uomo che fu propria dell’Illuminismo. Se egli poté, o piuttosto, dové, rimettere la decisione sulla scelta definitiva della via da imprimere alla propria vita al compimento del trentesimo anno, ciò non fu dovuto alla banale indecisione fra diverse e contrastanti vocazioni, ma al non poter egli rompere quella sua naturale unità di spirito, che pur sentiva contraddittoria con le esigenze e la moda dei nuovi tempi. Perciò, non scelse affatto, non operò il taglio necessario, non potò la sua pianta umana e morale, ma tutta insieme la trasferì in un mondo nuovo, quello dell’azione, della predicazione avverata e dimostrata negli atti.

Allora, tacque il teologo, che pure aveva donato alla critica delle origini cristiane alcuni contributi ancora oggi riconosciuti essenziali; e tacque il musicista, con rare apparizioni del concertista, ridotto ormai ad ausiliare e procacciatore di fondi del missionario. Sulla nascita del quale non molti hanno intuito un movente più vasto della candida e fervida dedizione del missionario cristiano, e della oleografica accensione dello spirito filantropico. Anche qui, la cultura tedesca è viva e presente, in funzione determinante, nello sfondo di questo ricchissimo paesaggio spirituale. Schweitzer non fu un candido, né un ottimista, né un sentimentale. La confidenza, la dolcezza, l’intimità non dovettero essere i suoi lati forti. Il profondo stimolo del suo agire fu determinato sempre e soprattutto della spinta sovrana del pensiero. Come non scorgervi il tendere verso quell’Ewig Guten, ewig Schönen, l’eterno Buono e l’eterno Bello, che per Goethe coincidono e si fondono; ma attraverso l’azione, altra ricetta kantiana e goethiana insieme, per la vita morale?

Si notò che egli predicava poco il cristianesimo nella sua missione, e di rado, se non mai, parlava di religione: «Io non ne parlo», ribatté lui, una volta, «ma la metto in pratica». Ed in quel «metterla in pratica», c’era l’anima attiva e curiosa, intenta a squarciare il velo delle cose, a darsi conto di tutte le verità, a dominare le forze della vita, sconfiggendo l’oscuro e il tenebroso con la luce dello spirito. L’azione sola è valsa, il sacrificio dell’uomo e della sua vanità, della sua debolezza, è quello che ha vinto. L’opera, se dobbiamo dire la verità, è perduta. Lo «spirito dei tempi», come lo chiamava il dottore, ha decretato altrimenti, i fatti han seguito una strada opposta a quella da lui indicata. La storia risponderà, egli scrisse.

La storia sta già rispondendo, e la presente rovina dell’Africa indipendente costituisce già una prova eloquente che egli aveva visto giusto. Arrivato in Africa dopo il passaggio dei grandi esploratori dell’Ottocento, quando Savorgnan di Brazzà era morto da poco, egli arrivò, nel lungo arco della sua vita, a vedere l’Africa dei Lumumba e dei Mulele pretendere ed ottenere l’indipendenza. Egli fu davvero l’ultima scintilla del grande colonialismo europeo. Si deve a lui se questo ciclo sanguinoso e combattuto, ma tuttavia grande ed augusto, che cominciò con lo sfruttamento, si chiuse con un’opera di civiltà e di pietà. Laggiù, nella giungla di Lambaréné, un vecchio teologo, musicista e missionario tedesco, tenne alta la bandiera (bisogna chiamarla così) di una civiltà che sempre più si sente rinnegare e insozzare nei luoghi dove nacque, dalla Sorbona a Palazzo Vecchio, da Heidelberg al Campidoglio.

Certamente dovette riflettere, il dottor Schweitzer, alla sua vittoria e alla sua sconfitta, negli ultimi tempi, fra le visite dei curiosi illustri in vena di turismo sentimentale, le accuse dei nuovi padroni. «Torna a casa, vecchio uomo bianco», gli dissero. E il vecchio dottore è tornato alla sua casa celeste, mentre nella piccola stanza riecheggiavano ancora, dopo ottant’anni, gli stessi preludi ai corali di Giovanni Sebastiano Bach, su cui la sua adolescenza si era dischiusa. Le cronache non hanno detto i titoli delle ultime musiche ch’egli si fece suonare, ma possiamo azzardarci ad immaginarli. Ci piace credere che abbia scelto Herr Gott, nun schleuss den Himmel auf, apri ora il tuo cielo, o Signore; oppure, l’ultimo dei «diciotto corali», che ha per titolo il versetto: Vor deinen Thron tret’ich, davanti al suo trono io mi presento… Sconfitto, avrebbe potuto aggiungere se ne avesse avuto l’orgoglio. Ma vittorioso.



(1965)

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In questo numero hanno scritto:

Tommy Cappellini (Lugano): lavora nella “cultura”, soffre di acufene, ama la foresta russa
Piero Buscaroli (1930-2016): giornalista, scrittore, storico della musica
Marco Testa (Torino): cresciuto nell’isola di Sant’Antioco, archivista, storico e critico musicale