Pensieri e pensatori in libertà


La cancel culture a Padova

È nell’iconica Università di Padova, con i suoi 800 anni di storia, che si è svolto il primo convegno italiano sulla cancel culture, organizzato a Scienze Politiche da tre coraggiosi professori: Marta Ferronato, Costanza Ciscato e Francesco Berti. La novità è prendere sul serio, con un’analisi accademica, un fenomeno, che è certamente nato come una moda americana, ma che è sempre più pervasivo anche in Europa.

Come risaputo, l’idea di base della cancel culture è quella di eliminare dal linguaggio, dall’arredo urbano e dalla formazione tutto ciò che è sbagliato secondo i criteri morali condivisi di oggi. Peggio ancora, consiste anche nell’eliminare tutto ciò che, sebbene giusto, è stato detto e fatto da persone che in un modo o nell’altro hanno fatto qualcosa di ingiusto, sempre secondo la morale condivisa di oggi. I casi sono noti: le statue di Cristoforo Colombo abbattute perché schiavista, Omero eliminato dai curricula perché sessista, Dante emendato della condanna infernale a Maometto perché islamofobo, Mark Twain riscritto perché usava parole razziste. E poi - ha ricordato lo storico torinese Borgognone - anche la cancel culture opposta, quella della destra religiosa americana, con la cancellazione dell’evoluzionismo o delle nudità.

Si è parlato molto a Padova delle condanne americane, delle battaglie, anche italiche, sui nomi delle piazze e delle strade, delle fortissime condanne di Papa Francesco che la definisce una colonizzazione ideologica, dei drammi interni alla sinistra americana, del rifiuto senza remissioni da parte dei marxisti ortodossi e dei dubbi di coloro che si rifanno in qualche modo all’Illuminismo. In effetti, qui tutto sembra c’entrare tranne che la ragione: è un odio morale, spesso con tinte di fanatismo religioso, che purtroppo eredita molto della sfiducia postmoderna nelle capacità umane di raziocinio, ma prende la soluzione opposta quella del nichilismo anni ’90 del secolo scorso: invece di dire che, visto che non c’è nessun criterio di giudizio, tutto va bene, assume un criterio morale assoluto e con esso misura la storia presente, passata, futura.

Un episodio del convegno fa capire però dove si annida il problema. Il risultato accademico è presto stato chiaro: il mondo culturale non si dividerà più fra destra e sinistra ma fra persone realiste e anti-realiste (o costruttiviste o nominaliste), fra chi pensa che la realtà e i suoi intrinseci significati vengano prima del pensiero e chi pensa che le nostre parole possano e debbano alterare la realtà a piacimento.

Eppure, dopo ore di analisi dotte e inequivocabilmente critiche, una studentessa interviene per dire che “se non si può eliminare la tradizione e la storia, allora come facciamo a cambiare il mondo?”. Applausi scroscianti degli studenti, fino ad allora silenti. Si è risposto a lungo cercando di spiegare che occorre essere realisti proprio per cambiare il mondo

, ribadendo analisi e dati, ma non li abbiamo convinti. Già, perché l’ideologia è proprio così: non c’è nessuna evidenza reale, nessuno studio di esperti, nessuna testimonianza che la farà cambiare. L’ideologia, infatti, ha una radice affettiva potente, e spesso prende le persone giovani perché hanno meno degli altri delle relazioni solide e significative. L’ideologia, come aveva capito Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, colpisce le persone sole, non sole fisicamente, ma sole moralmente, sole teoreticamente, cioè senza ipotesi di spiegazioni da verificare – ipotesi che si racchiudono proprio nelle tradizioni – fornite da qualcuno che valga la pena stare ad ascoltare. Forse, queste tradizioni sono state presentate in maniera parziale o inesatta, o corredate da esempi di vita insufficienti, ma fatto sta che, come sempre nella storia, il voler cancellare la tradizione e la storia è il primo segno che l’ideologia, con correlata violenza, sta attecchendo.


© Riproduzione riservata.
Zafferano

Zafferano è un settimanale on line.

Se ti abboni ogni sabato riceverai Zafferano via mail.
L'abbonamento è gratuito (e lo sarà sempre).

In questo numero hanno scritto:

Umberto Pietro Benini (Verona): salesiano, insegnante di diritto e di economia, ricercatore di verità
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro
Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Emanuel Gazzoni (Roma): preparatore di risotti, amico di Socrate e Dostoevskij, affascinato dalle storie di sport
Giovanni Maddalena (Termoli): filosofo del pragmatismo, della comunicazioni, delle libertà. E, ovviamente, granata
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite