LA Posta


Riccardo Ruggeri risponde a quattro lettori

Roberto Cotterchio scrive: “Mi considero mediamente informato, ma scopro solo ora che esiste in Cina un’azienda edile (Evergrande) con 300 mld $ di buco a bilancio, ma pare che in realtà i miliardi persi siano 3.000, il cui fallimento, dicono gli esperti, potrebbe avere drammatiche ripercussioni nel mondo intero, quindi anche nella mia piccola stamperia commerciale! Com’è possibile aver progettato un modello economico così...

...fragile, che uno starnuto a diecimila chilometri possa abbattere un piccolissimo imprenditore come me, già sul filo del rasoio?”

Lei si è data già la risposta, usando la parola corretta, e oggi di moda: fragile. Il modello politico economico culturale, figlio di una selvaggia globalizzazione delle ”filiere industriali e finanziarie”, alla quale ci siamo impiccati, si è rivelato molto fragile. Ovvio il perché, basato com’è sulla fuffa intellettuale di un pugno di pseudo competenti che confondono la teoria con l’execution. Mi dia retta, ragioni e operi sempre in base all’execution, continui a tenere bassi i suoi costi, si tenga stretti i suoi clienti e i suoi dipendenti, e lavori, lavori tanto, cercando di superare le buriane che si succederanno. Sapendo che non ha altra alternativa, lei è costretto a farcela. E ce la farà.

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Tommaso Taramella scrive: “ Nel suo Cameo di Zafferano 128 ci invita a usare le energie pro e contro il vaccino per “rammendare” l’Italia. Come si evita lo spopolamento dei piccoli comuni se lo sviluppo e le opportunità si concentrano tutte nelle grandi aree urbane?”

Forse ha ragione lei, forse la mia idea di “rammendare” l’Italia è velleitaria. La migrazione dalla campagna alle città era basata sulla ricerca di un lavoro, quindi di uno stile di vita migliore, e fu massiccia dopo le due Guerre mondiali. Fu supportata da grandi investimenti nelle manifatture e nell’edilizia, e tutto ciò che ne seguì, secondo un certo modello di sviluppo, creando una classe media e una operaia con i fiocchi. Con l’attuale modello politico, economico, culturale (che io chiamo CEO capitalism) tutto è cambiato. Abbiamo messo al centro la figura spuria del “consumatore” in luogo del “produttore”, del “lavoratore”, abbiamo distrutto il concetto di famiglia (l’organizzazione più efficiente e dai costi più bassi del modo di vivere) per essere più liberi, non facciamo più figli, perché non abbiamo più tempo (a questo ritmo di nascite presto la popolazione si dimezzerà). Saremo così idioti da concentrare tutto nelle aree urbane? Così le città diventeranno doppie? Le ZTL diventeranno sempre più verdi, con tante piste ciclabili, palazzi con orti verticali e orizzontali (così non prenderanno fuoco), automobiline elettriche a gò gò, uffici digitali? E, ovviamente, Sindaci ortolani? Di contro, fuori le mura ci saranno immense, imbarazzanti periferie, stabilimenti in rovina, case popolari zeppe di divani (sfondati) di cittadinanza. Finirà così? Mi rifiuto di crederlo.

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Alberto Alberti scrive: “Devo cambiare l’auto. Faccio 25.000 km/anno, 40% urbano, 60% extraurbano. Cosa prendo: benzina/diesel-ibrido-elettrico di prima generazione? Anche il venditore di fiducia non sa sollevarmi dal mio dubbio amletico, se non proponendomi l’acquisto con noleggio a lungo termine che equivale a non decidere. E se mi tenessi l’attuale diesel fin che campa?”

Ho avuto il suo stesso problema sei mesi fa. L’ho risolto così. Raggiunta una certa età, ho seguito una delle regole del buon vivere: più s’invecchia, più il letto deve essere più largo e l’auto più piccola. Dal 2015 ho una Q 3 diesel, quindi secondo i miei standard era ora di cambiarla. Poi quando Ursula von der Leyen dettò la direttiva europea secondo la quale dal 2035 in Europa non sarebbero più state costruite o importate auto non elettriche, senza garantire che a quella data la produzione di energia in Europa sarebbe stata solo “vento-sole-acqua”, capii che era marketing politico in purezza. Comprare un’auto elettrica molto costosa, sapendo che dietro alla spina di ricarica ci sono ancora gli osceni carbone e idrocarburi mi pare una buffonata. Quindi ho deciso di tenermi la Q 3 diesel fin che campa. Nel caso mio, è stata scelta a rischio zero, essendo certo che la Q 3 camperà più di me.

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Lorenzo Pignatello scrive: “Come valuta il declino dell’era Fiat e di Torino e del futuro di questo settore? Draghi cambierà un destino già scritto? L’imposizione insensata dell’auto elettrica consegnerà alla Cina il business dei business”.

Non vedo perché come italiani ci dovremmo preoccupare del problema dell’industria automobilistica. Dal 2009, per scelta degli azionisti Fiat, con il supporto fondamentale di quel genio assoluto che è stato Sergio Marchionne, il più grande deal maker su piazza, siamo fuori (anche se molti non l’hanno capito subito). Fiat è diventata prima americana (sede Detroit) e oggi francese (sede Parigi). Certo, sono rimasti alcuni stabilimenti più o meno cacciavite, il cui futuro lo deciderà la proprietà francese. Ci restano alcuni pezzi di componentistica pregiata, il cui destino è però legato al successo o meno della Germania, visto che sono follower delle loro auto. Comunque l’auto non sarà più l’industria delle industrie, verrà in parte sacrificata sull’altare dell’ambiente (come la carne bovina), ma un business marginale probabilmente concentrato sull’unico segmento che rimarrà, il “medio-alto lusso”. Leggo che Torino si sta riciclando da car town a città della cultura e della scienza. Auguri.
 
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Zafferano

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In questo numero hanno scritto:

Angela Maria Borello (Torino): direttrice didattica scuola per l’infanzia, curiosa di bambini
Valeria De Bernardi (Torino): musicista, docente al Conservatorio, scrive di atmosfere musicali, meglio se speziate
Roberto Dolci (Boston): imprenditore digitale, follower di Seneca ed Ulisse, tifoso del Toro
Barbara Nahmad (Milano): pittrice e docente all'Accademia di Brera. Una vera milanese di origini sefardite
Riccardo Ruggeri (Lugano): scrittore, editore, tifoso di Tex Willer e del Toro