Spigolando su FCA Remain o Exit?

FCA Remain o Exit? è “un libretto on-off, o lo si ama oppure la sua destinazione è il cassonetto”, sostiene l’autore, Riccardo Ruggeri. O “a pelle lo si condivide” – scrive sempre Ruggeri – oppure “a pelle lo si rifiuta”.

Senza alcuna velleità di apparire originale, il sottoscritto ha amato questo pamphlet, lo ha pure letto “tutto d’un fiato” come prescrive l’autore, ma allo stesso tempo non lo ha condiviso in maniera integrale. Se sto qui a precisarlo è soltanto perché questo mio giudizio epidermico credo sia la naturale conseguenza dell’acume, dell’originalità e della godibilità del testo di Ruggeri. Le stesse qualità, insomma, che mi hanno spinto per anni – quando da giornalista del Foglio mi è capitato di seguire le vicende della Fiat di Sergio Marchionne (2004-2018) – a cercare con insistenza Ruggeri, possibilmente per condividere le sue riflessioni coi lettori.

Ripercorrere la storia recente della Fiat con una scrittura che ha il ritmo dei tweet, di per sé, è una sfida da guiness dei primati in cui Ruggeri riesce magistralmente. Chissà che ciò non possa avvicinare a questa vicenda un pubblico più ampio del consueto. Si tratterebbe di un’operazione utile, a maggior ragione, considerata l’originalità del punto di vista scelto dall’autore per raccontare la Fiat degli ultimi anni: quello dell’investitore in corporate bond della Casa automobilistica di Torino. La competenza di Ruggeri nel settore automotive poi è notevole: da operaio diciottenne dello stabilimento di Mirafiori, è arrivato ai vertici di CNH e di Fiat. Tutto ciò, unito al metodo da àpota prezzoliniano, gli consente per esempio di elogiare lo “spessore manageriale” di Marchionne nei suoi primi anni a Torino, per come gestì il Convertendo delle banche italiane o l’annullamento del put di General Motors. E allo stesso tempo di denunciare il “grave errore” di Marchionne che consisté, attorno al 2009, nel rinviare lo “spezzatino” di Fiat che avrebbe sì sacrificato il produttore d’auto nazionale ma avrebbe salvaguardato la capacità dei suoi stabilimenti di generare prodotti competitivi e quindi forza lavoro. L’approccio metodologicamente laico, inoltre, permette a Ruggeri di parlare di “colpo di genio” marchionniano nella trattativa con l’Amministrazione Obama per il salvataggio di Chrysler, e subito dopo di concludere con amarezza che con quel deal atlantico la storia “è finita come doveva finire: Detroit è rimasta una delle capitali dell’auto mondiale, Torino è diventata una città della cultura”. Per l’investitore Ruggeri, tutti i ragionamenti e le conclusioni di cui sopra non sono tra loro contraddittori. E così è, effettivamente. Investitore e competente, Ruggeri fa pure chiarezza su uno degli aspetti più controversi della gestione Marchionne, sulla scelta del manager in pullover di anteporre – nella sua testa, magari, solo in maniera transitoria – gli obiettivi di cassa della Fiat ai “cicli di sviluppo” del prodotto, cioè di nuovi modelli di auto. Peccato che, spiega con chiarezza Ruggeri, recuperare un “ciclo di sviluppo” saltato richieda a un’azienda automobilistica tempi lunghi e costi altissimi. L’investitore Ruggeri, in conclusione, è sia nella posizione di ringraziare Marchionne per i guadagni che gli ha garantito nell’arco di un decennio, sia nella posizione di criticare il manager in pullover per aver perseguito il solo interesse degli azionisti e non quello degli stakeholder più ampiamente intesi.

La prospettiva scelta per osservare la parabola di Marchionne e della sua Fiat, quella dell’investitore appunto, per quanto originale è necessariamente parziale. Ciò emerge, a mio modo di vedere, in un paio di passaggi del libro in cui Ruggeri descrive un Marchionne “incensato” dall’establishment italiano. Di elogi il manager canadese ne ha effettivamente ricevuti, perlopiù al suo arrivo in Italia, quando pure esponenti illustri della gauche pensarono di trovarsi di fronte un “borghese buono” (cit.) che annunciava di voler svecchiare gli stabilimenti Fiat e dialogare con gli operai. Fu una luna di miele breve, come possono testimoniare i cronisti che hanno seguito “sul campo” la fase clou della trattativa con Chrysler sul fronte americano e poi il confronto dialettico con sindacati e Confindustria sulle fabbriche italiane. In quei momenti, infatti, Marchionne divenne per molti addirittura un “nemico” più che un semplice “avversario”, la quintessenza dell’autoritarismo capitalista, emissario yankee e pure cosmopolita, l’obiettivo di un astio multiforme da parte delle élite italiane. Erano ancora di là da venire gli elogi postumi. A quel tempo premi Nobel, talk-show televisivi, sindacalisti dei lavoratori e degli imprenditori, esponenti politici e intellettuali di grido, perfino il giornale della Real Casa di Torino (!), insomma un po’ tutti in Italia – eccezion fatta per un manipolo di bastian contrari – trovarono almeno un motivo per attaccare pubblicamente Marchionne, o quantomeno per non sostenerlo e sperare nel suo fallimento. “Marchionne rockstar di Detroit insultato in Italia per i tagli”, s’intitolava un articolo scritto nel settembre 2012 dell’asettica agenzia stampa Bloomberg, domiciliata negli Stati Uniti. Questione di prospettiva, ancora una volta. Il Marchionne che scuote le relazioni industriali italiche di stampo consociativo, il Marchionne che esce dalla Confindustria (che Fiat contribuì a fondare) convincendo dipendenti e operai a seguirlo, il Marchionne che invita a fare tesoro della globalizzazione e del nostro legame storico con gli Stati Uniti, il Marchionne che scandisce parole impietose e di verità sull’attitudine del nostro Paese rispetto a ogni tipo di cambiamento, è comprensibilmente poca cosa agli occhi di un investitore in bond Fiat. Ma allo stesso tempo quel Marchionne ha incarnato una novità di non poco conto per l’Italia. Il manager italo-canadese, perseguendo il meglio per i suoi azionisti, è diventato per il Paese un riformatore malgré soi. Questa sua eredità, a volerne e saperne fare tesoro, rimane in Italia anche se il quartier generale di FCA vola verso Detroit o Amsterdam. E’ l’ennesima dimostrazione del principio liberale per cui le azioni intenzionali sono importanti, ma altrettanto decisive possono essere le loro conseguenze inintenzionali.

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